Appunti di viaggio n. 12 - Der Zauberberg - Davos
Pubblicato da Alessandra Nardon in Impressioni di viaggio · Domenica 27 Ago 2017 · 3:45
Tags: Davos, Zauberberg, Mann, appunti
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Subito, all’arrivo del trenino a cremagliera (unico mezzo di ascesa) il vecchio portone di legno si apre con moderno automatismo e Schatzalp ti accoglie e inghiottisce. Si percorre una passerella coperta da una tettoia di legno fino all’edificio che si allunga su una “terrazza erbosa (…) con una torre a cupola e la facciata verso sud-ovest, che da lontano, così ricca di logge e balconate, appariva bucata e porosa come una spugna (…)”*
Tutto (o quasi tutto) è rimasto nel passato (se qui la parola ha un senso): le grandi terrazze un tempo dedicate alla “cura”, i lunghi corridoi con “le porte numerate e verniciate di bianco”*, doppie con un vano interno (cosa che incuriosisce ancora e non solo il protagonista del romanzo!); “il largo lavabo i cui rubinetti nichelati scintillavano alla luce elettrica”* e la sala da pranzo “non molto fonda in proporzione alla lunghezza (…) i pilastri, rivestiti fino a metà dell’altezza di legno impiallacciato di sandalo lucido, poi imbiancati come la parte superiore delle pareti e il soffitto (…)”* a cui si accede attraverso delle porte vetrate, come una volta. Molto di quel che c’era testimonia l’impianto originario degli ambienti: nell’ingresso, sulla cui destra è situata la conciergerie e a sinistra la reception, ci si trova di fronte alla scala che porta ai piani superiori e ad uno degli ascensori; sul lato opposto della sala da pranzo si apre la grande sala del caminetto, da lì, su per dei gradini, si accede ad altre sale più piccole destinate allo svago.
Il tempo (è per questo che la parola passato ha un valore relativo) sembra non avere importanza nel Berghof Schatzalp e del resto le digressioni sul “tempo” sono una costante di tutto il romanzo di Mann, anzi, sono forse il tema centrale del romanzo stesso. Un tempo che si dilata e si contrae incurante dei grandi orologi che pendono dai soffitti dei corridoi, anch’essi rimasti là, come prima, e che con la loro costante presenza scandivano le giornate degli ospiti del sanatorio. Una presenza incombente a ricordare che, comunque, il tempo scorre; tuttavia, pur annotandoli come una insolita particolarità, credo di non essermi mai basata sulle loro indicazioni durante il periodo della mia permanenza allo Schatzalp, avendo accettato, per così dire, una dimensione senza coordinate.
Der Zauberberg è considerato un bildungsroman, un romanzo di formazione, e i sette anni trascorsi dal protagonista, Hans Castorp, nel sanatorio costituiscono per lui una maturazione e una crescita spirituale. Il tempo, tanto minuziosamente scandito nel corso delle giornate ma così irrilevante nel lungo periodo, sembra perdersi deflagrando alla vigilia del primo conflitto mondiale che pone fine non solo ad un’epoca ma anche alla permanenza del giovane Castorp sulla montagna di Davos.
Una vacanza estiva non può certo produrre troppi cambiamenti eppure quell’atmosfera, l’essere relativamente isolati dalla vita che si affaccenda giù a Davos-Platz (e dalle proprie consuetudini), il fatto di trovarsi in un luogo in cui tante vite si sono consumate, tutto ciò lascia un’impronta. Il tempo è la chiave per comprendere la diserzione dagli schemi consueti e il conseguente sentimento di estraneità di fronte al resto a “quelli laggiù” (così vengono definiti i sani nel romanzo), come una sorta di assoluta possibilità che stordisce e alla fine fa ricercare il limite, il conosciuto.
Così, alla fine, ogni cosa ha il suo termine e mentre la campanella con i suoi tre squilli avvisava la partenza del trenino, in quel momento, ho sentito forte l’urgenza del “ritorno”.
* Thomas Mann, La Montagna Incantata, (trad. it. Ervino Pocar), Mondadori, Milano, 1992.