Trilogia della città di K
Pubblicato da Alessandra Nardon in Recensioni libri · 11 Gennaio 2022
Tags: Kristof, K, città, trilogia, DiIorio
Tags: Kristof, K, città, trilogia, DiIorio
La Trilogia della città di K di Agota Kristof si compone di tre romanzi che trovano il filo conduttore nella storia di due gemelli durante una guerra, presumibilmente la seconda guerra mondiale, che però non viene mai precisata così come non vengono precisati i luoghi in cui si svolge la vicenda anche se l’atmosfera fa pensare ad un paese dell’Est Europa.
Le tre parti in cui è divisa l’opera sono narrate da prospettive diverse, la prima, a mio giudizio la più interessante sia dal punto di vista narrativo che per il contenuto, è raccontata in prima persona plurale: noi. Sono infatti i due gemelli, all’unisono, “il narratore” della storia e la focalizzazione è interna, cioè il punto di vista è quello di un personaggio (in questo caso doppio) che narra i fatti in prima persona.

Mario Di Iorio, Grafica, 1984
Ci sono, nel racconto, tutti gli elementi della fiaba, quelle che Propp ha indicato come funzioni caratterizzanti del genere. Il tempo, non ben definito se non per essere genericamente indicato come un tempo di guerra; il luogo in cui si svolge la vicenda, al limitare del bosco, dove si va a cercare e si trova l’avventura; gli eroi della storia, i due gemelli, che passando per una serie di prove acquisiscono la loro formazione; la strega, l’antagonista, rappresentata dalla nonna; l’indeterminatezza dei nomi che dei due gemelli non si conoscono e di altri personaggi che vengono chiamati con il nome comune diventato proprio con l’uso dell’iniziale maiuscola: Madre, Padre, Nonna: sono questi tutti elementi della fiaba. Il ruolo dell’aiutante è svolto dal soldato che fa da attendente a un ufficiale nemico, affittuario in una stanza della vecchia. Ma anche altri personaggi possono essere considerati degli aiutanti come il calzolaio che regala ai due bambini degli stivali, oggetti (magici?) senza i quali non potrebbero continuare nelle loro attività, l’uomo che gestisce la cartoleria che fornisce gratuitamente penne e quaderni essenziali per la loro formazione. E poi ci sono i personaggi più torbidi, si presentano come dei benefattori ma hanno il loro tornaconto: l’ufficiale, la fantesca, il curato. C’è la vittima che va salvata, una povera ragazza soggetta ai capricci della madre e ai soprusi dei paesani, segnata dal degrado nel fisico e nella mente, soprannominata dai bambini Labbro-leporino. Infine ci sono le prove, molte, a cui i due fratelli si sottopongono per fortificare il corpo e la mente in un processo di iniziazione che ha come scopo la capacità di affrontare le insidie della vita sopportandone privazioni e dolori.
Un altro topos della fiaba classica è il genitore, madre o padre che sia, che lascia i figli in un luogo ritenuto più sicuro ma in realtà infido per sottrarli ad un destino peggiore. Così il Grande Quaderno, la prima parte della trilogia, si apre proprio con la Madre che dalla Grande Città porta i bambini all’altro capo della Piccola Città, nella “casa di Nonna”.
Le azioni dei due gemelli che solo negli altri romanzi avranno un nome, Lucas e Klaus, sono prive di empatia. Anche quando aiutano Labbro-leporino non lo fanno per pietà ma perché così si deve fare, come se fossero spinti da una causa estranea a qualsiasi sentimento e partecipazione umana. Nella terza parte del libro alcune frasi possono spiegare questo loro agire spinto da una necessità superiore. Lucas-Claus (Klaus) (le due personalità si confondono) colpisce in sogno il fratello con un posacenere di vetro e lo fa stramazzare a terra. Tutto avviene senza pietà e senza rimorso. Un vecchio che passa di là gli dice: “Hai fatto quello che dovevi. Bene. C’è poca gente che fa quello che bisogna fare.” E ancora: “Hai fatto bene. Hai fatto bene ad impedirglielo. Bisognava che lo ammazzassi. Così tutto rientra nell’ordine, nell’ordine delle cose.”
Ecco, appunto, “l’ordine delle cose” quel dover essere che spinge all’azione e travalica ogni altra considerazione umana. Attraverso i loro addestramenti i due gemelli diventano così più simili a delle macchine che a degli uomini, pronti a rispondere a dei comandi preordinati che non lasciano alcuno spazio alla dimensione sentimentale. Così deve essere.
Questa mi sembra sia la chiave di lettura della trilogia ma, in particolare, della prima parte del racconto che si configura come una fiaba grottesca e noir.
Mario Di Iorio, Grafica (particolare), 1980
Le altre due parti subiscono uno sdoppiamento rispetto l’io narrate perché i due fratelli si dividono e uno di loro lascia il paese per ritornare, anni dopo, già uomo. L’equilibrio narrativo si spezza, gli stilemi della fiaba scompaiono e la narrazione diventa a tratti confusa, forse pretestuosa. Insomma l’aver unito in una trilogia i tre racconti, tra l’altro composti in epoche diverse, sembra a volte una forzatura e, a mio giudizio, toglie efficacia all’insieme.
Ad ogni modo la lettura coinvolge, si vuol sapere come va a finire e il libro si legge tutto d’un fiato. Anche lo stile, asciutto e pulito, che nella prima parte è una scelta più cosciente e funzionale al racconto, contribuisce alla scorrevolezza del testo.
Alla fine non è un’opera che lascia indifferenti e, comunque sia, costringe ad un giudizio.
1
recensione
Grazia Fracassi
11 Gen 2022
Che bella recensione ,cara Nardon🥰 viene voglia di leggere i libri ! Un affettuoso saluto dalla tua collega “pensionata”